Incontro ravvicinato con il coronavirus, La nostra Dr. Simona ci racconta dal vivo la sua esperienza.

Domenica 29 marzo suona il campanello: mi sono appena alzata; è l'infermiera del Servizio di igiene che mi deve fare il tampone; è il terzo a cui vengo sottoposta in seguito a contatti con più pazienti positivi. Anche questo risulterà negativo.

Lunedì e martedì sono giornate intense, come del resto lo è stato l'ultimo mese. Martedì sera sono al lavoro nel mio studio ma inizio ad avvertire brividi di freddo. Chiedo ad un'infermiera di misurarmi la temperatura: ecco, ci siamo 37,3°C. Da un mese ormai non ho più contatti al di fuori del lavoro, dove indosso sempre la mascherina e disinfetto le mani in continuazione, e forse 2 volte al supermercato sempre con guanti e mascherina.

Vado immediatamente a casa e avviso il colega che il giorno dopo non sarei andata al lavoro.

Passo i 2 giorni successivi con febbricola mai superiore a 37,5, lieve mal di gola e mal di testa. Nella notte tra giovedì e venerdì non riesco a dormire: forti dolori alla schiena e al torace non mi danno tregua, come se fossi stretta in una morsa. Il venerdì mattina mi alzo dolorante, vado in bagno e sento che devo fare respiri più lunghi e profondi del solito: la saturazione è scesa a 79%. Non va bene: nel primo pomeriggio mi faccio accompagnare al Pronto Soccorso: RX torace, ecografia polmonare, emogas, prelievo e tampone. Gli esami sono tutti a posto e mi dimettono in attesa del risultato del tampone.

La sera stessa inizio comunque ad assumere azitromicina: ho pochi dubbi sul risultato del tampone e comunque vista la sintomatologia, un po' di antibiotico non mi fa male.

Il giorno dopo, squilla il telefono: “Ufficio igiene, mi dispiace ma il suo tampone di ieri è positivo”.

Nella mia mente ne ero già consapevole dalla comparsa dei sintomi, ma sentirselo dire è un'altra cosa e toglie ogni possibile dubbio.

Penso immeditamente: “se vado avanti così e la sintomatologia non peggiora mi va pure bene”. Preparo la lista dei contatti che ho avuto negli ultimi 2 giorni in cui ho lavorato: colleghi, infermiere, pazienti, oltre ovviamente al mio compagno. Perchè c'è anche lui: l'appartamento è piccolo, non è possibile l'isolamento completo quindi sicuramente lo contagerò, se già non l'ho fatto.

Passano i giorni: non sto così male, la temperatura non sale più oltre i 37°C, ho perso un po' il senso del gusto (mi rendo conto che sto aggiungendo molto più sale e zucchero per sentire il sapore) e se mi alzo per andare dal divano al bagno la saturazione scende intorno all'80%, ma forse grazie all'allenamento non sono particolarmente dispnoica. 

Cerco di autoconvincermi: “dai il periodo più critico è tra il 5° e il 7° giorno, se passa così sono fortunata”.

Il 10° giorno mi sveglio, non ho febbre ed ho la sensazione di stare un po' meglio: ho parlato troppo presto, verso mezzogiorno qualcosa inizia a non andare bene e la febbre inizia a salire 37,2 poi 37,8° e compare un forte mal di testa. Prendo una tachipirina: la febbre scende e il mal di testa si attenua, ma l'effetto dura poco. Ho nausea, non riesco a cenare. Alle 20 il termometro segna 38.5°, la testa mi scoppia, la Tachipirina non ha nessun effetto.

Il giorno successivo non ho febbre ma sono tutta rotta. Riferisco l'episodio al medico dell'USCA che mi segue al domicilio: viene a visitarmi  e mi prescrive l'idrossiclorochina. OK ha dimostrato una certa efficacia, ma conosco benissimo tutti gli effetti collaterali che si porta dietro. So che è la strada giusta, ma ci penso due volte: sono sana, non ho mai avuto problemi al cuore, l'ultima visita sportiva fatta non più tardi di un mese fa era ok.

La sera assumo le prime 2 amarissime compresse che il vicino di casa è andato a recuperare in farmacia (non potendo uscire di casa né io né il mio compagno dobbiamo fare affidamento ai gentilissimi vicini).

Da quel giorno in poi non ho più febbre, ma mi stanco molto facilmente. Provo a seguire anche a distanza il lavoro, ma bastano 2 telefonate a togliermi il respiro, quasi come quando ero vicina alla vetta del Kilimangiaro l'anno scorso.

La domenica di Pasqua trascorre in modo un po' travagliato: il mio compagno deve essere portato in Pronto Soccorso per un'improvvisa colica renale e tra  le altre cose viene sottoposto a tampone. Risulta positivo anche lui ma è ancora asintomatico: speriamo.

A 20 giorni dalla comparsa dei sintomi, continuo a desaturare per sforzi minimi ed inizio ad avvertire un senso di costrizione costante al torace: inizio con l'eparina sottocute e il medico dell'USCA mi prescrive l'ossigeno domiciliare. 

Pian piano la situazione generale sembra migliorare, ma il tampone al 14° giorno è ancor positivo.

Teniamo duro, tra alti e bassi ormai sono al 25° giorno. Con il medico dell'USCA che torna a visitarmi facciamo il walking test dei 6 minuti :la saturazione scende ancora a 80%. E' dura: mi esaurisco passando dal divano alla sedia e viceversa e fino a qualche settimana fa pedalavo per 100 km senza troppi problemi. 

E' un virus subdolo che ti esaurisce oltre che fisicamente anche psicologicamente: ti illude che il peggio sia passato regalandoti un giorno in cui stai meglio ma il giorno successivo sei a terra.

Oggi sono 27 giorni dall'inizio dei sintomi: ho ripetuto il tampone ed è comparsa di nuovo febbricola, ma sono ottimista e prima o poi andrà tutto bene.

 

Mario Bazzanella ci telefona spesso,  sta bene ma l'ultimo tampone lo da ancora positivo, costretto quindi a posticipare la tanto attesa uscita in bici.

 

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